Buonasera Viaggiatori!
si.. avete capito bene. Buonasera. Anche se voi state leggendo questo articolo la mattina di Ferragosto, io sono qui a scriverlo in una lunga nottata. E’ sabato 11 agosto e sono quasi le 2 ma, poco fa, ho finito di leggere L’ultimo giorno di un condannato di Victor Hugo e non ho saputo resistere alla tentazione (e soprattutto alla voglia) di scrivere immediatamente la recensione.
L’ultimo giorno di un condannato è stato scritto nel 1828, pubblicato anonimamente nel 1829 e tradotto per la prima volta in Italia nel 1854. Io possiedo l’edizione Feltrinelli (2012) con traduzione e prefazione di Donata Feroldi che, ovviamente, ho letto.
Il romanzo è ambientato nella Francia dell’Ottocento, all’interno della prigione di Bicêtre. Il protagonista è un uomo che ha commesso un crimine ed è stato quindi condannato alla pena di morte. Contrariamente a quanto si può pensare, questo libro non è presentato come un appello accorato del condannato nei confronti di giudici, avvocati ecc.. che hanno deciso di portarlo al patibolo. Infatti, l’intenzione non è quella di impietosire ma semplicemente di raccontare la sofferenza che travolge il protagonista (di cui non conosciamo il nome) in attesa della condanna. La scrittura in prima persona permette al lettore di immedesimarsi perfettamente nel condannato a morte, di essere lui stesso il condannato e provare le stesse sensazioni.
Hugo descrive l’angoscia e il senso di impotenza del protagonista, costretto ad attendere per settimane un destino già segnato. Mille sono i pensieri che affollano la mente del condannato, rinchiuso nella sua cella. Pensieri di vita, di evasione, di riscatto, di speranza, di libertà… di morte.
“Ci vorrebbero mesi per scalfire questo muro con dei buoni attrezzi, e io non ho né un chiodo né un’ora”
Ci sono momenti in cui si lascia travolgere dalla negatività e pensa che morire immediatamente possa essere la soluzione a tutti i mali; altri in cui la voglia di vivere prende il sopravvento e si ritrova a riflettere sul senso della sua vita, su tutto ciò che sta per lasciare, in particolare la sua bambina. Altre volte invece pensa semplicemente alla morte, al destino inevitabile che lo attende, a cui non può sfuggire. Si chiede come sarà, se farà male o se, al contrario, sarà una morte rapida. Ripensa a tutte le storie che ha sentito a riguardo e non sa darsi pace, nel buio e nella solitudine della sua cella.
Molto significativo è il modo col quale il protagonista si rapporta con chi lo circonda (carcerieri, secondini e guardie): è un soggetto escluso dalla comunità e viene trattato come se fosse già morto. Di conseguenza, il condannato ha sentimenti e pensieri contrastanti anche per ciò che riguarda le persone con cui viene in contatto: cosa pensano davvero? Lo vogliono salvare o condannare?
“Non vedere un essere umano che mi ritenga degno di una parola e a cui poterla ricambiare”
La scrittura si rivela essere quindi l’unico mezzo a disposizione del condannato per dire dar voce ai propri pensieri. Da un lato c’è la volontà di non ripetere questa tortura in futuro dall’altro invece, si chiede se la sua esperienza possa davvero servire a qualcosa. Del resto, lui sarà morto, in ogni caso.
“Che quello che scrivo possa essere un giorno utile ad altri, che blocchi la mano del giudice in procinto di giudicare, che salvi degli sventurati, innocenti o colpevoli, dall’agonia a cui sono condannato, perché? a che scopo? che importa? Quando la mia testa sarà stata tagliata, cosa cambia per me se ne tagliano altre?”
La stesura di questo monologo scaturisce dalla necessità di denunciare una condizione umana inaccettabile, un disagio che può essere spiegato e tramandato soltanto grazie alla scrittura. La scelta di usare la prima persona singolare è dovuta alla volontà di abbattere tutte le barriere che si creano, in certi casi, tra il lettore e il protagonista: Hugo vuole portare i suoi lettori a riflettere grazie all’identificazione con il condannato. Chiunque di noi potrebbe essere il protagonista della vicenda.
L’autore, con queste pagine, vuole mettere in risalto che, contrariamente a quanto accade per tutti gli esseri umani che ignorano quando e come arriverà la morte, un condannato conosce perfettamente il modo e il momento in cui tutto finirà ed è questa la vera tortura per l’animo umano.
I capitoli sono molto brevi; alcuni non presentano una vera e propria conclusione. In questo modo, Hugo sottolinea la forte contrapposizione tra la scrittura (eterna) e la vita (molto breve per il condannato a morte).
Il romanzo offre moltissimi spunti di riflessione ed è un documento contro la pena di morte, in vigore all’epoca. Ho trovato particolarmente illuminante la prefazione che secondo me va assolutamente letta prima di procedere. Inoltre, sono rimasta molto colpita dalle descrizioni minuziose che Hugo fa sia dell’ambiente in cui il condannato è costretto a vivere, sia dell’angoscia e di tutte le sensazioni che prova.
“Dicono che non è niente, che non si soffre, che è una fine dolce, che la morte, in questo modo, è alquanto semplificata. Eh! Allora cos’è quest’agonia lunga sei settimane e questo rantolo lungo un giorno intero? Cosa sono le angosce di questa giornata irreparabile, che scorre così lenta e così in fretta? Cos’è questa sequela di torture che mettono capo al patibolo?”
Piccolo ma molto importante. Un capolavoro. E’ un libro molto scorrevole e veloce da leggere. Essendo un monologo, non si presenta nessuna difficoltà nel seguire la vicenda. Per quanto mi riguarda, credo che entrerà a far parte delle letture migliori del 2018; un libro struggente che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita.
Senza dubbio, 5⭐⭐⭐⭐⭐
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–Elaysa–
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