Una donna assassinata in una casa vuota, distesa in una pozza di sangue nel buio del salotto. Unico testimone, il gatto. E’ questa la scena agghiacciante che Wahhch Debch si trova davanti una sera, tornando dal lavoro. Quella casa è la sua, quella donna è sua moglie.
Tre righe. Soltanto tre righe sono bastate per catturare la mia attenzione e farmi venire voglia di leggere questo romanzo.
L’ho scelto tra tanti, una sera dopo aver abbandonato l’ennesimo libro, in preda ad uno sconforto da “blocco del lettore”, in un periodo in cui nulla sembrava catturarmi davvero.
E poi è arrivato Anima.
E’ bastato poco, me ne sono innamorata.
Lo sto divorando e oggi, con questo articolo, voglio farvi entrare in questo mondo; una realtà diversa, vista dal basso, dal mondo animale.

Titolo: Anima
Autore: Wajdi Mouawad
Tratto da: Bestiae Verae
Avevano giocato tante volte a morire l’uno nelle braccia dell’altra, così tante volte che, nel trovarla tutta insanguinata in mezzo al salotto di casa, è scoppiato a ridere, convinto di essere di fronte a una messinscena, una simulazione in grande stile per sorprenderlo una volta per tutte, sconvolgerlo, lasciarlo di stucco, fargli perdere la testa, metterlo nel sacco.
Lasciando cadere la busta di plastica gialla – proprio quella mattina lei gli aveva detto tutta allegra Compra un po’ di tonno perché il tonno-leva-il-medico-di-torno -, ha capito che era morta, perché aveva gli occhi aperti, lo sguardo fisso e le mani intorno alla ferita, con il coltello piantato lì nel sesso.
Toglietemi la terra da sopra la testa, avrebbe voluto urlare, come quel giorno lontano in cui alcuni uomini lo avevano sepolto vivo. Non devo piangere, si è ripetuto più volte, se piango, se grido, ricominceranno da capo, mi tireranno fuori, mi uccideranno e mi rimetteranno dentro. E anche adesso, in piedi in mezzo al corridoio dell’ingresso, senza più cognizione del tempo, è rimasto immobile, ha smesso di respirare, per paura che tutto ricominci da capo, che lei muoia di nuovo, il che è assurdo in fin dei conti, perché non ci sono dubbi sul fatto che sia già morta, le mani aggrappate alla lama, mazzo di fiori sul ventre squarciato. Forse, chissà, aveva cercato di estrarre il coltello mentre era agonizzante, ma se così era stato, doveva essere morta prima, perché lo sforzo richiedeva troppo sangue. Sono sicuro che lui ha pensato agli ultimi battiti del suo cuore, pesce gatto in mezzo al petto, abbandonato a se stesso, trascinato verso il fondo. Sono sicuro che ha pensato al suo sangue che correva per l’ultima volta in una corsa sfrenata e cieca attraverso il dedalo delle sue vene, per poi sgorgare come una risata dalla ferita aperta del suo sesso, dove il coltello era stato affondato e riaffondato e riaffondato e riaffondato ancora.
[…]
Non saprei dire per quanto tempo è rimasto immobile, quanto tempo è trascorso prima che andasse a inginocchiarsi accanto a lei. Lo vedevo nel chiarore giallastro dei lampioni di fuori, che chiazzavano di luce una parte del salotto. Ha avvicinato il viso al viso di lei, ogni istante che passava ci separava sempre più da Léonie, pallida come una stella troppo lontana, illividita dalle tenebre della notte. Si è rialzato, ha sollevato la testa, ha respirato e, prendendosi il ventre tra le braccia incrociate come per calmare una fitta acuta, ha emesso un gemito, né grido né pianto, piuttosto un vomito rauco, provocando una vibrazione che ha fatto tremare i vetri dell’appartamento nelle loro cornici di legno.
[…]
–Elaysa–
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